La primavera in montagna si riconosce per due cose: il canto del cuculo ai margini del bosco che circonda il paese, e che ci sorprende mentre siamo intenti a raccogliere un po’ di valeriana, di tarassaco o di buon Enrico dai prati che iniziano a verdeggiare, e più in alto dai rugolii e i soffi del gallo forcello che abita il ricco sottobosco a ridosso delle praterie alpine.
Mentre il cuculo risulta abbastanza osservabile anche nel corso di una semplice passeggiata lungo i sentieri del fondovalle, per il forcello le condizioni sono necessariamente più complicate. I motivi sono legati alla quota a cui si estendono gli habitat del tetraonide, che spesso tra aprile e maggio sono ancora innevati, e al momento della giornata in cui questi si espone nelle parate: dalle prime ore dell’alba al sorgere del sole e nelle ultime luci del giorno sino al tramonto.
È ormai diventata una ricorrenza annuale, tra aprile e maggio, recarmi prima dell’alba ai margini di qualche rodoreto-vaccinieto per attendere in silenzio alla ripresa mattutina delle parate amorose dei forcelli.
È più forte di me; non riesco a farne a meno. Probabilmente tutto è riconducibile alla magica atmosfera che il bosco assume nel breve momento in cui la notte lascia il posto al giorno; quel breve momento in cui gli animali notturni cessano il loro canto e il silenzio assoluto viene infranto da sommessi rugolii e soffi lontani.
Sono i primi galli che iniziano a risvegliarsi e che abbandonate le chiome di larici o abeti, ove trascorrono la notte, si portano sul terreno. Tutto appare ancora oscurato, ma a est una debole luce fa breccia tra le nuvole e pian piano si risveglia anche il canto dei fringuelli e dei merli dal collare.
Adagiato ai piedi di un vecchio larice che domina una piccola radura frequentata da anni dai galli, nascosto da una muraglia di rododendro e coperto da un telo, attendo. Inganno il tempo ripensando alla civetta capogrosso che con il suo canto mi ha accompagnato lungo tutto il sentiero e solo da poco ha smesso di cantare: chissà dove avrà fatto il nido? Il freddo che si fa man mano più pungente trasforma in una tortura il necessario immobilismo. Uno sbatter d’ali seguito da un rugolio molto vicini mi annunciano che un gallo è arrivato nella piccola radura e mi incoraggiano a resistere. Sbirciando dal mio nascondiglio, scorgo trepidante la sagoma zigzagare tra l’erba; poi si arresta. “Mi avrà già notato?” Si erge impettita allungando il collo ed emette il caratteristico soffio: “Tchuuuuuush”!
“No. Non mi ha visto…” Ma è ancora troppo scuro per tentare di raccogliere qualche immagine; devo pazientare. Non mi muovo e quasi smetto di respirare. Sento altri due frulli raggiungere la radura: attacca uno scontro fatto di soffi e sbatter d’ala; poi mi pare che un gallo si allontani con un fragoroso volo di ripiegamento.
Osservo le punte dei larici che in lontananza iniziano a colorarsi di arancione e mi accorgo che anche le sagome dei due galli presenti nell’arena si distinguono meglio. Attendo ancora sperando che sopraggiunga una femmina. La sento che timidamente si avvicina dal bosco per quel caratteristico “Kech-Kech” che emette mentre di pedina cerca di raggiungere i maschi. I galli imperturbabili proseguono nelle loro parate e finalmente riesco a riprendere qualche attimo di quel rito ancestrale che si perpetra da tempo immemorabile. Soddisfatto dei risultati attendo ancora che la luce migliori. Potrebbero trattenersi in arena sino al sopraggiungere della femmina e per allora l’arena sarebbe completamente al sole.
Mentre mi crogiolo nelle mie fantasie, scorgo i galli che si bloccano; richiudono il ventaglio della coda e spiccato un balzo si allontanano in volo dal prato. Attonito, mi guardo attorno interrogandomi sul perché di quel comportamento improvviso. Scopro in fretta che è l‘arrivo di una volpe ad aver infranto la magia di quel momento. Osservando nella direzione del fulvo predatore, scorgo un fagottino grigio appollaiato su di un ramo di larice: ecco dove si è rifugiata la femmina del fagiano. “Accidenti! Sarebbe bastato proprio poco perché arrivasse anche lei sull’arena!” Quando il silenzio cala sull’arena, assieme all’avvolgente sopraggiungere del sole mi sollevo dalla mia postazione per sgranchirmi, recuperare l’attrezzatura e senza indugi abbandonare i margini dell’arena.
Proprio mentre mi allontano, il volo di un picchio nero, indaffarato a estrarre larve da un vecchio larice mi ricorda della civetta capogrosso. Dove c’è il picchio nero è possibile che nidifichi anche la capogrosso e io ho ancora un po’ di tempo per perlustrare quell’angolo di montagna. Non passa molto perché mi riesca di individuare alcune vecchie cavità e più a valle ne scorgo una che, su di un larice spaccato dalla neve, si direbbe frequentata. Non faccio in tempo ad avvicinarmi che uno sguardo curioso fa capolino dal foro e osserva severo le mie intenzioni. Mi blocco quasi paralizzato da quell’inaspettato incontro: “Non ci credo!”.
Indietreggio quel tanto che basta per riprendere la civetta affacciata al nido: pochi attimi prima che lei si ritragga al sicuro della cavità. Timidamente, come se mi trovassi di fronte a un altare, a qualcosa di sacro e particolarmente prezioso e caro al bosco, mi seggo emozionato a terra e ripongo lesto la reflex. Mi guardo attorno: è tutto un ronzare, un brulicare di vita. Formiche che spostano pezzetti di legno, timide api che indagano il territorio, morbidi e lanosi anemoni che tingono di tenui tinte pastello l’ambiente ingrigito dallo scioglimento della neve, il tamburellare di un picchio rosso, il richiamo di un nero. Sono immerso nella forza rigeneratrice della Natura che, ne sono certo, anche quest’anno si è accesa al canto del forcello.