Mentre il barista mi porgeva il caffè voltai le spalle al tavolo dei tre amici che proseguivano a scavare nei ricordi di tempi nemmeno troppo lontani. Trangugiai la mia bevanda calda e rinfrancato mi sentii pronto per proseguire verso casa. Salutato il gruppo, mi tirai dietro la porta e, sigillando là dentro le voci e i pensieri di quegli uomini, cercai la strada rischiarata dalla fioca luce del locale. Poco dopo, mentre quel chiarore si stemperava nell’oscurità e tutto assumeva una nuova forma sotto i riflessi della luna, ritrovai la mia auto.
Al sicuro nella piccola seicento, diretto verso valle, ripensai a quella gente; alla mia gente, che più o meno consciamente, aveva seguito il ghiaccio. Per anni lo aveva utilizzato per irrigare, pascolare, sciare, congelare, bere; ne aveva sfruttato i confini, lo aveva utilizzato come ponte, strada solida e veloce di collegamento con i cugini Francesi e generazioni di montanari si erano entusiasmate di fronte alla sua disarmante imponenza.
E allora perché, adesso che non c’era più, io continuavo a cercarlo lassù tra le rocce? Era forse scritto nel mio DNA di montanaro?
Non lo so, ma mi piace immaginare che tra i massi di quel bacino pietroso, ai margini delle morene, fra le candide penne delle pernici possa celarsi il segreto dei ghiacciai; voglio credere che finché ci saranno le pernici, fintanto che riuscirò a scorgerle o ascoltarne il gelido canto, non tutto sarà perduto. In fondo ne sapranno ben più di noi a proposito di freddo e ghiaccio, e se oggi, nonostante tutto, continuano a resistere posso credere che neve e ghiaccio torneranno ancora.