La giornata era iniziata bene. Dopo un sonno tranquillo e ristoratore, Orso e Pancrazio si erano rifocillati con un’abbondante colazione, avevano lasciato la baita del Piné con poche cose nello zaino e prima ancora che il sole riscaldasse le pareti del Seguret erano sopra al colletto pronti a risalire il canalone che li avrebbe condotti in cresta. Da lassù avrebbero proseguito verso il Galambra, attraversato il Colle d’Ambin e poi sarebbero scesi verso Bramans per incontrare un gruppo di esuli valdesi intenzionati a rientrare verso la propria valle.
Quei due passeur vivevano guidando persone diversissime e lontanissime da loro attraverso le montagne in una direzione o nell’altra; non erano gente che facesse troppe domande, a loro bastava che alla fine gli venisse riconosciuto qualche denaro in cambio.
A monte di Bramans, al fondo della lunga vallata che si diparte a nord del Niblè, incontrarono il gruppo di persone: era guidato da un pastore valdese ed era composto da sei uomini, quattro donne e cinque bambini dei quali due davvero piccoli.
Superati i convenevoli, il manipolo prese a marciare diretto all’Ambin. Durante l’ascensione dei ghiaioni detritici, Orso e Pancrazio compresero che quel gruppo eterogeneo non sarebbe mai riuscito a raggiungere le comodità della baita del Pinè in un’unica marcia. Pensarono piuttosto che sarebbe stato meglio approntare un campo prima del sopraggiungere delle tenebre e trascorrere la notte al riparo di qualche “balma”(rifugio roccioso) fra la Rocca d’Ambin e il Lago delle Monache. Si sarebbero rimessi in marcia la mattina seguente più riposati e con il favore del giorno.
Quando, poco prima delle ventuno, il cicaleggiare di alcune coturne allarmate dal sopraggiungere della comitiva indusse il gruppo a sollevare gli occhi dal sentiero, il loro sguardo si perse tra le rocce di un intero versante. Ecco il custode silenzioso dei segreti di passeur e contrabbandieri, ecco il costone delle balme che li avrebbe accolti per la notte.
Pancrazio si occupò di recuperare un po’ di quella legna già trasportata e nascosta lassù, sotto alcune rocce, in occasioni precedenti, poi Orso accese in fretta un bel focherello che con voce scoppiettante e calda luce, richiamò presto a se l’intero gruppo. Gli adulti guidati dal pastore presero a pregare sotto lo sguardo incantato dei bambini, mentre le due guide, timidamente e in disparte, s’incantarono a osservare di soppiatto i due infanti più piccoli che, emersi dalle fasciature, si attaccavano come capretti ai prosperosi seni delle giovani madri.
Non appena il momento di preghiera si dissolse nel silenzio degli astanti, Orso e Pancrazio estrassero dagli zaini due mocette dure come corame che affettarono sapientemente e distribuirono poi con generosità a tutti; il pane saltò fuori dai sacchi dei pellegrini, come l’acqua e il vino. Nel silenzio di quelle altezze, nella lunga e gelida notte, con il peso dell’immensa volta celeste a premere sul cuore, in pochi riuscirono a dormire. Il suolo roccioso non permetteva di raccogliere e conservare il calore e c’era sempre uno sperone o una bugna che spingeva nella schiena o in un fianco.
Lentamente a est il cielo da nero prese a diventare blu scuro poi, via via sempre più chiaro. Quando Orso si sollevò per osservare il fondo valle, dietro al rapido passaggio di un branco di camosci, si accorse che nuvoloni scuri si ammassavano all’imbocco della vallata con la prevedibile intenzione di risalirne i fianchi.
Sapeva già, il montanaro, che nel corso della mattinata anche loro sarebbero stati colti dalla nebbia, ma ciò che realmente lo preoccupava era il pensiero di doversi muovere lungo la linea di cresta senza poter fare affidamento ai soliti inequivocabili riferimenti.
Tutti vennero accoratamente spronati a prepararsi per proseguire la marcia, incoraggiati dalla prospettiva di poter presto raggiungere la baita dei due montanari dove finalmente mangiare e riposare senza più ansie o paure. Orso aprì la traccia alla carovana mentre Pancrazio si preoccupò di non lasciare nessuno in dietro. Mentre erano in procinto di risalire il nevaio del Galambra la nebbia li afferrò dalle spalle: prima Pancrazio con le donne e i pargoli al collo, poi i bambini, gli uomini e avanti sino a Orso.
Imperlati di gocce strappate alla nebbia, risalirono zigzagando un lungo canalone che pareva ingorgato dalla coltre nebbiosa sicuri che quella via obbligata, difficilmente mal interpretabile, li avrebbe condotti sulla cresta.
Raggiunta la sommità, l’appannamento dei sensi dovuto alla completa immersione nel bianco indistinguibile di neve e nebbia mutò improvvisamente: l’esposizione ai venti di quota pareva afferrare per i capelli la bruma schiacciatasi nel canalone come a volerla trarre fuori per poi sfrangiarla e disperderla in ciocche e barbe che lasciavano finalmente trasparire ampi scorci di cielo e di quell’ambiente estremo attraverso il quale si ritrovavano a transitare.
Proseguirono sino al Vallonetto riuscendo a superare senza troppe difficoltà il pianoro del Gran Seglie e un punto particolarmente esposto dopo il quale si estendeva la più “comoda” cresta rocciosa che conduceva direttamente al Seguret dal quale avrebbero seguito la via normale di discesa verso il Pinè.
Quando ormai pareva a tutti di essersi lasciati alle spalle gli ostacoli peggiori, le correnti di cresta si calmarono consentendo alle nebbie di ricomporsi e addensarsi. Presto,il gruppo si ritrovò ancora ammantato e stretto in una cupa e gelida presa. Il salto di roccia che avevano intravisto correre lungo tutto il versante sinistro della cresta, così come i nevai del lato opposto, a proposito dei quali avevano sentito parlare Orso la sera precedente, adesso li terrorizzavano.
Qualcuno implorò di attendere un miglioramento del tempo, e Pancrazio e Orso avrebbero volentieri acconsentito se, tutto attorno, le nubi non avessero iniziato a sgomitare tuonando e rombando spaventosamente. Lassù la paura principale non era rivolta alla pioggia o a quei tuoni che facevano vibrare l’anima, ma alle saette che sapevano correre sulle rocce ferrose meglio dei camosci e a differenza di quelli, che temevano i cristiani, queste ne sembravano particolarmente attratte.
Mentre Pancrazio e Orso cercavano d’incitare il gruppo a proseguire nella speranza d’incappare in un riparo, le correnti d’aria ripresero a soffiare da ogni dove. Quando nell’ululato del vento grosse gocce di pioggia mista a grandine presero a sferzare violentemente il volto dei poveretti questi si sentirono annientati. Tra una folata e l’altra, tra i pianti dei bambini e i richiami delle donne, mentre ognuno cercava di trattenere con se calma e coraggio come gli stracci e le coperte nelle quali si era avvoltolato, il pastore li richiamò ancora a se, afferrandoli uno a uno per il braccio, e intonato un salmo cercò di infondere su tutti calma e fiducia.
Erano a terra da un po’, stretti gli uni agli altri, quando col diminuire del temporale giunse alle orecchie di tutti un canto cristallino. Inizialmente increduli ad accettare ciò che pareva essere, immaginarono presto che dovesse trattarsi del canto emesso da un qualche uccello avvezzo a quell’ambiente.
Concentrati a distinguere quelle trillanti note capaci di emergere dal frastuono della tempesta, realizzarono che dovesse trattarsi di un buon segno: forse anche loro, con le loro paure e fragilità, sarebbero scampati a quella brutta situazione?
Ai due Passeur, pareva semplicemente un trillo che giungeva dalla cresta o dall’abisso che la costeggiava sul versante sinistro, ma i pellegrini si lasciarono rincuorare da quella manifestazione e si predisposero a proseguire la marcia lungo l’ancora invisibile linea di cresta.
Serrati i ranghi, il gruppo prese con circospezione ad avanzare in direzione del richiamo che, assente quando procedevano, pareva riaccendersi ogni qual volta il gruppo si fermava per decidere quale direzione seguire. La cresta venne così percorsa dal gruppo, che si ammassava e si sgranava tra una tappa e l’altra come il mantice di una fisarmonica, sino alla croce in legno posta sulla vetta del Seguret.
Sulla croce, mentre le nebbie andavano e venivano, tutti poterono osservare per un istante, un uccello molto piccolo, apparentemente grigio e nero, che riconobbero come fonte del richiamo. Questi, aggrappato con spropositati artigli alla croce, ne percorreva i legni che a tratti, tutti lo giurarono, si accesero di rosse fiammate.
Per Orso e Pancrazio era solo l’effetto dovuto al diradarsi delle nebbie unito ai brillanti colori del piumaggio del picchio muraiolo a illuminare quella maldestra avventura, ma per i pellegrini era il segno evidente di chi li avesse veramente guidati attraverso quelle avversità.